Sfollati.


Bergamo città non aveva mai subito incursioni aeree di rilevante importanza. Solo qualche mitragliamento del campo d'aviazione militare di Orio al Serio e la caduta di un ordigno sul casello della ferrovia delle Valli, in via San Fermo, che sterminò l'intera famiglia del casellante

Di notte i soliti sorvoli del "Pippo" con lancio di spezzoni illuminanti e sporadici mitragliamenti. Attività bellica più per impaurire che per recare danni a cose o persone.

Con il bombardamento dello stabilimento di Dalmine, e la miracolosa incolumità di mio padre, iniziò a serpeggiare in famiglia la preoccupazione che anche la nostra città, prima o poi, dovesse subire le devastazioni in atto a Milano. Per questo motivo i miei genitori decisero che dovevamo "sfollare".

Iniziammo, pertanto, il pellegrinare da un paese all'altro dell'hinterland cercando ospitalità in casa di parenti paterni.

La prima tappa fu a Curno, allora chiamata Curdomo.

Nel cortile di questa casa ebbi l'ultima visione di mio zio Pino, fratello di mia madre, che colto sul lavoro, presso lo stabilimento Caproni a Ponte San Pietro, da un'appendicite perforante riuscì a raggiungere in bicicletta prima di essere inutilmente trasferito in ambulanza all'Ospedale di Bergamo. Non lo rividi più.

Sempre durante la permanenza a Curno mi capitò più volte di accompagnare alcune donne, tra le quali mia mamma e le mie zie, a portare vettovaglie ai prigionieri, fuggiti dal campo di concentramento di Lallio, nascosti sulle colline di Mozzo. La presenza di bambini era necessaria poiché in caso di controlli, da parte di militari fascisti, si dimostrava loro che la nostra era una semplice scampagnata nei prati tra i cascinali.
Fortunatamente ciò non accadde mai.

Successivamente da Curno ci spostammo ad Albegno, in una stanza che fungeva da cucina e camera da letto, messa a disposizione temporaneamente da lontani cugini di mio padre.

Di questo periodo ricordo molto bene l'episodio del bombardamento di Ponte San Pietro. Quello in cui venne colpita la Casa di ricovero per anziani poco distante dalla Stazione ferroviaria. Obbiettivo dell'incursione aerea era il ponte sul fiume Brembo, ma gli ordigni sganciati si sparpagliarono in massima parte sull'abitato e solo uno di loro raggiunse l'obiettivo senza, peraltro, infliggere danni consistenti.

Un amico, di qualche anno più anziano del sottoscritto, m'invitò a salire sulla sua bicicletta e, insieme, raggiungere Ponte San Pietro distante pochi chilometri. Naturalmente acconsentii e, senza avvisare alcuno, ci precipitammo con il biciclo, io seduto sul canotto e lui pedalando, ad osservare gli effetti dell'incursione.

L'immagine della costruzione sventrata, mentre i soccorsi erano ancora la lavoro per raggiungere gli ultimi anziani rimasti intrappolati nelle stanze ai piani più alti dell'edificio, l'odore di morte e la polvere sollevata nello spostare macerie da parte dei soccorsi e causata dai crolli di rimasugli di muri di altre abitazioni colpite, c'indusse a tornare rapidamente a casa.
Ovviamente la nostra assenza non passò inosservata con il conseguente "castigo" che mi venne inflitto dai genitori. Il rischio d'incorrere in qualche ordigno non ancora esploso o di essere vittime di crolli improvvisi di pareti delle case colpite lo giustificava ampiamente.

L'inverno lo trascorremmo in questa stanza, riscaldata da una stufa alimentata con i mozziconi di legna di robinia, lasciata dai "predatori" che ci precedevano, raccolti lungo i fossi, oppure con palle di carta pressata, precedentemente bagnate, cosparse di polvere di carbone e poi lasciate ad asciugare in modo da rendere più lento il consumo.

Qualche volta accompagnavo mia madre, sempre in bicicletta, alla mensa dello stabilimento, anche quello distante pochi chilometri dalla nostra sistemazione, con una gavetta che veniva riempita alternativamente da minestra o pastasciutta. Ma anche queste spedizioni durarono poco perché mio padre, ancora sotto shock, ordinò tassativamente di evitare la zona industriale ancora possibile obiettivo d'incursioni aeree.





Anche in campagna, trovare il cibo era diventato difficile. Dai parenti ottenevi un pentolino di latte o l'invito, per qualche serata, a mangiare le pannocchie di mais abbrustolite  sul fuoco del camino. Il sale era introvabile e per insaporire la polenta era necessario sciogliere nell'acqua il dado Liebig. Al mercato nero potevi trovare di tutto ma i prezzi erano irraggiungibili per lo stipendio di mio padre.

Alla fine dell'inverno, con mio padre, mi dedicai alla caccia alle lumache, munito di un uncino biforcuto che lo zio, fabbro, aveva costruito appositamente,

Arrivò finalmente la primavera del 1945 e una mattina d'aprile, udii un frastuono e rumore di automezzi salire dalla strada; mi affacciai alla finestra e si presentò un corteo di camioncini, spuntati dal nulla visto che quelli reperibili erano stati sequestrati per scopi militari, e di carretti trainati da cavalli, sui quali giovani, donne e ragazzi sventolavano bandiere rosse frammiste a quelle tricolori.

Era il 25 aprile, la fine della guerra, il giorno della Liberazione e per noi significava il "ritorno a casa".

Dopo poco più di un mese avrei avuto la compagnia di un fratellino e a fine agosto avrei festeggiato il  mio sesto compleanno.

Commenti

  1. Alberto, continua a frugare negli angratti della memoria.
    Sono ricordi importanti, che é molto bello leggere.

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