La nevicata d'inizio primavera


Giovanni, dalla finestra di casa, guardava i lenti fiocchi di neve appoggiarsi lievemente sui rami del piccolo abete cresciuto in giardino. Quella nevicata, fuori tempo massimo anche se non rara, lo preoccupava. Il suo pensiero era rivolto a Giacomo che la sera precedente lo aveva salutato con la frase: «Ciao Gioan, 'ndo 'n malga, 'nse èt domà sira» (Ciao Giovanni, salgo in Malga a controllare i disastri dell'inverno. Ci rivediamo domani sera). allontanandosi poi, con il ritmato passo del montanaro, verso öl mut, la montagna.

La neve era iniziata a scendere verso la mezzanotte del giorno precedente e aveva continuato lungo tutta la giornata e quella successiva, aumentando via via lo spessore del suo manto; neve di primavera, neve bagnata che, su in alto,  poteva causare guai seri.

Ormai il crepuscolo era incombente e sembrava che il fuori programma nevoso non avesse intenzione di terminare.

Giovanni era vedovo da anni, viveva in quella casa, precedentemente occupata da suo padre, che lo aveva accolto da giovane sposo tanti anni addietro e, successivamente, padre felice e orgoglioso della prole familiare: un maschio e due femmine.

Le due femmine, sposate entrambe, avevano seguito i propri mariti in Francia, alla ricerca di quel lavoro tanto difficile da trovare nella valle.

Le famiglie dei due mariti delle figlie erano originarie del paese di Giovanni e si erano trasferite in Francia dopo la fine della seconda guerra mondiale. In Italia non avevano trovato occupazione e, come tanti altri nella valle, avevano deciso di emigrare. Per i francesi i nostri operai erano chiamati "Maccaronì" , ed era il termine più elegante; erano accusati di «venire a rubare il pane dei francesi …» . e considerati come  «gente sporca, che emanava un cattivo odore, che mangiava cose strane (tipo pasta a forma di vermi disseccati) ».(*)
Poi, negli anni, si erano integrati e i vecchi pregiudizi nei loro confronti si erano affievoliti sino a sparire del tutto.

Ma quei tempi, i due generi di Giovanni, se li ricordavano bene e, durante le rimpatriate estive al paese d'origine, davanti agli amici e parenti seduti attorno al tavolo di cucina li raccontavano scuotendo il capo e, dopo alcuni bicchieri di vino, picchiando energicamente i pugni sul tavolo.

Il maschio aveva preferito la vita da "single" e si era sistemato in paese affittando un appartamentino che un amico aveva ristrutturato. Spesso, la sera, faceva visita al padre, soffermandosi sulle solite chiacchiere di paese, poche novità spesso riportate dai Quotidiani o ascoltate alla televisione. Commenti serali prima, ciascuno, di ritirarsi per la notte.

Mentre osservava le farfalline bianche oltre il vetro, Giovanni associava la preoccupazione per la sorte di Giacomo con quella che aveva provato anni addietro quando in una serata invernale ebbe la notizia dell'incidente che aveva coinvolto suo padre. Un tragico incidente che aveva sconvolto la sua vita.

La famiglia di Giovanni possedeva un appezzamento di terreno poco distante dal paese dove si coltivava la segale e, nell'orto, tanta verdura da poter rifornire il piccolo negozio di fruttivendolo gestito da sua madre. La scomparsa del padre aveva rivoluzionato il tranquillo menage familiare.

Il giovane, aveva dovuto cercare un lavoro e, con un poco di fortuna, era stato assunto dall'Azienda ferroviaria locale. Il capolinea era a pochi chilometri dal suo paese ed era raggiungibile in bicicletta, anche se nel periodo invernale, il tragitto non era molto agevole.
Alcuni anni dopo, la ferrovia era stata dismessa ma Giovanni da ferroviere era diventato operaio meccanico: faceva il manutentore degli autobus che avevano sostituito il treno. Questa occupazione gli aveva permesso di "metter su famiglia", come si suol dire, sposarsi e permettere una vita dignitosa alla moglie e ai figli nati dal matrimonio.

Si ricordò dell'incidente in cui incorse quella volta che lui e Giacomo mentre scendevano velocemente in bicicletta i tornanti della strada che conduceva al deposito ferroviario. Ad una curva, affrontata con eccessiva velocità per distaccare l'amico, era uscito di strada ed era finito nella scarpata perdendo i sensi.

Giacomo, inchiodò il suo biciclo e vedendo le precarie condizioni non esitò a caricarselo sulle spalle e con passo da podista corse verso la famosa osteria del "vì bu", distante un paio di chilometri, per chiedere soccorso. Era l'unica in zona ad essere dotata di apparecchio telefonico.

Il medico che li aveva raggiunti a bordo della sua seicento, constatate le condizioni di Giovanni lo caricò velocemente in auto e si diresse all'ospedale più vicino. Prognosi: trauma cranico e commozione cerebrale; Giovanni si salvò grazie alla prontezza dell'amico Giacomo.

E la neve, fuori, continuava lenta a scendere; lenta come i suoi pensieri, lenta come il passo da montanaro di Giacomo mentre il giorno precedente, dopo averlo salutato «Ciao Gioan, 'ndo 'n malga, 'nse èt domà sira» - , si allontanava verso la malga, su in alto. E la preoccupazione aumentava.

Giacomo era il suo amico d'infanzia, avevano condiviso la scuola e si erano ritrovati colleghi di lavoro nella ferrovia. I turni erano diversi ma i due trovavano sempre l'occasione per incontrarsi, nell'osteria a metà strada tra il capolinea del treno e il loro paese, e bere un bicchiere di buon vino, quello che l'oste affermava: «Chèsto l'è chel che bie me, chel bu!» (Questo è il vino che bevo io, quello buono), frase che, naturalmente, ripeteva a tutti gli avventori.

Diventati pensionati i due amici questi incontri "col vì bu" li avevano mantenuti, almeno nel periodo estivo, su alla malga di Giacomo: una vecchia costruzione, vecchia più del suo proprietario, dove venivano portate le tre manze che nel periodo invernale trovavano riparo nella stalla in paese. Il regolamento comunale imponeva che nella stagione estiva non potevano essere ospitate nelle stalle del paese, problemi di carattere sanitario.

Proprio le ingiurie del tempo, visibili anno dopo anno, avevano prodotto in Giacomo una sorta di angoscia, che diventava ancor più acuta nei mesi invernali soggetti a nevicate, sulla tenuta di quelle povere travi tarlate e bisognose di sostituzione. Il problema era il costo che Giacomo non poteva sostenere.

Quanto avrebbe inciso quella nevicata tardiva intrisa di acqua sulla tenuta delle strutture del tetto? - pensava Giovanni mentre alcuni fiocchi mossi da un leggero vento di appiccicavano ai vetri della finestra sciogliendosi immediatamente in piccole gocce d'acqua. E quel disgraziato di Giacomo perché tardava a tornare, rimuginava con un misto di preoccupazione e rimprovero verso l'amico incosciente.

Il sentiero normalmente non presentava grosse difficoltà. Certo con la neve caduta che lo ricopriva e con il velo biancastro della nevicata che nascondeva le normali indicazioni di riferimento, era problematico mantenere la giusta direzione.

Specialmente il tratto che tagliava a mezza costa il vallone, "öl cavrèl" dove puntualmente, ad ogni grossa precipitazione nevosa, si verificavano distacchi di neve in alto procurando slavine che scendevano sino in fondo tra i massi del torrente. E questa era la maggior preoccupazione di Giovanni.

Fuori ormai s'era fatto buio e l'unico chiarore era il bianco della neve sul terreno.

Giovanni si decise, calzò un paio di scarponi, agguantò il piumino, regalo del figlio nell'occasione di Natale, si mise in testa il berretto di lana per coprirsi pure le orecchie, si mise in spalla lo zaino al quale agganciò le sue vecchie ciaspole - era da tempo che non utilizzava quei vecchi racchettoni da piedi e le teneva appese in anticamera come cimelio giovanile - prese una torcia a pile e uscì di casa. Un vento freddo e umido misto con fiocchi di neve mulinanti nell'aria lo colpì sul viso e per qualche secondo si chiese se anche lui non stesse facendo la stessa pazzia che aveva indotto Giacomo a muoversi da casa con quel tempo da lupi. Poi s'incamminò deciso e sicuro verso la montagna.

La luce della torcia illuminava malamente pochi metri avanti, ma per il momento il sentiero era sufficientemente visibile grazie al muretto di pietre che lo costeggiava. Più in alto il muretto spariva e iniziavano le difficoltà d'orientamento. Tutto era appiattito dalla coltre di neve caduta ma Giovanni aveva un "fiuto intuitivo" speciale e continuò ad avanzare con una certa sicurezza. Alle sue spalle le luci del paese erano scomparse e davanti la visibilità, grazie alla luce della torcia, era di un paio di metri.

Non seppe quanto tempo fosse trascorso dalla sua uscita di casa quando intravide una sagoma scura sul sentiero poco più avanti. Accelerò quanto bastava per raggiungerla in pochi secondi e si accorse che era Giacomo inginocchiato come se stesse pregando ma con il viso rivolto a terra.
Lo afferrò e lo scosse sollevandolo di peso, sembrava inerte ma un leggero alito usciva ancora dalle sue labbra.

Giovanni lo avvolse in un abbraccio sfregando energicamente braccia e torso dell'amico avvolte in un giaccone semi irrigidito dalla neve e dal gelo. Poi tolse la fiaschetta di grappa che era rimasta nello zaino dalle ultime escursioni autunnali in malga e fece bere qualche sorso a Giacomo. Un lieve sorriso e un verso stridulo, simile al tentativo di articolare un ringraziamento, uscì dalla bocca del disgraziato.

Lentamente, sorreggendo l'amico, Giovanni riprese il sentiero verso casa; questa volta le sue impronte gli furono d'aiuto considerato che non poteva contemporaneamente sorreggere Giacomo e utilizzare la torcia. Contrariamente al solito la strada, pur in discesa, gli sembrò non finisse mai.

A casa, dopo aver tolto a Giacomo gli abiti bagnati e irrigiditi e averlo avvolto in un'accogliente coperta calda, continuò con i massaggi alle articolazioni dell'amico finché non ripresero il colorito normale  di mamma natura, alternandoli con scodelle di brodo caldo avanzato dal pasto di mezzogiorno.

Poi seduti sul divano si fece raccontare l'avventura, iniziando dalla partenza sino al ritrovamento nella bufera di neve. Almeno questa era l'intenzione.

Ma la stanchezza e la tensione diedero un altro risultato: dopo pochi minuti ambedue gli amici si addormentarono, la mano di Giovanni posata sul braccio di Giacomo.

Settimane dopo i due amici decisero di salire in malga, questa volta con il bel tempo e senza neve sul sentiero, per verificare i danni. Il tetto aveva retto ma ormai la necessità di un intervento radicale non lasciava scampo; il prossimo inverno sarebbe stato un disastro.

I due si sedettero su un tronco che fungeva da panca davanti la casa e iniziarono a progettare i lavori, il denaro necessario l'avrebbe procurato Giovanni utilizzando i pochi risparmi messi da parte per gli imprevisti della vecchiaia.

Ma quale maggior occasione di questa, per aiutare un amico gli sarebbe capitata nella strada della vita che rimaneva  ancora da compiere.

Giovanni trasse dallo zaino la sua boccetta di grappa e, insieme, brindarono all'amicizia e al lavoro che, sempre insieme, avrebbero affrontato. Mentre brindavano Giovanni si fece giurare dall'amico che l'inverno prossimo l'avrebbero trascorso in casa, giù in paese rinviando alla primavera le "escursioni malgare" di verifica danni.

La permanenza nell'alpeggio estivo delle tre manze sarebbe stato assicurato anche per le prossime stagioni.


(*) i termini e le frasi riprodotte sono tratte dalla lettera di un figlio d'emigranti.

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